Nel fumetto...

Viene riportato integralmente un articolo di Andrea Cantucci, preso dal web. Impossibile inserire il link in quanto si tratta di un documento word, ma molto interessante da poter leggere riguardo i linguaggi artificiali. 

LE IMMAGINARIE LINGUE DEL FUMETTO
Prima parte: Terre inesplorate e animali parlanti
Articolo di Andrea Cantucci

Il fumetto, come si sa, è un linguaggio privo di una vera e propria dimensione sonora percepibile, ma al tempo stesso è basato tanto sui dialoghi (che ognuno può immaginare di sentire diversamente nella propria testa mentre legge) quanto sulle figure racchiuse nelle vignette che mostrano come si svolge l’azione. Quindi questa forma narrativa popolare, i cui eroi spesso vivono avventure a contatto con popoli diversi dal proprio, dovrebbe affrontare anche il problema di come differenziare il linguaggio di tali popoli, più o meno estranei o misteriosi, realmente esistenti o immaginari, semplicemente esotici o del tutto alieni, che si dovrebbero esprimere in idiomi diversi dai personaggi che parlano la stessa lingua del lettore. “Dovrebbero” appunto.
Il condizionale è d’obbligo poiché molto spesso gli autori, soprattutto del passato, hanno preferito ignorare semplicemente il problema, un po’ per comodità e un po’ per non complicare troppo la vita al lettore stesso.
A volte agli autori basta una vignetta per riassumere un periodo di tempo più o meno lungo in cui l’eroe apprende la lingua di un certo popolo, lingua che il lettore potrà così continuare a leggere comodamente tradotta nella propria. Nelle storie di fantascienza la tecnologia può venire in aiuto per non far perdere troppo tempo ai protagonisti. Certi viaggiatori del tempo come Valerian o Lilith, grazie alla scienza del futuro, apprendono in pochi istanti per induzione la lingua dei paesi di altre epoche in cui sono appena giunti.
Non mancano naturalmente neanche gli autori più accurati, che si documentano per inserire nei loro fumetti anche frasi nelle lingue più esotiche. Per far capire al lettore ciò che si dice in una lingua straniera, in tanti fumetti è uso abituale far seguire alle frasi una approssimativa traduzione tra parentesi, o in una didascalia in calce alla vignetta, in pratica dei veri e propri equivalenti fumettistici dei sottotitoli cinematografici.
Negli USA le traduzioni sono spesso inserite tra parentesi ad angolo e da un po’ di tempo si è andata affermando la convenzione di non scrivere nemmeno più le frasi nella lingua straniera ma di indicare soltanto i dialoghi che si finge siano in un’altra lingua (vera o immaginaria) sempre inserendoli tra parentesi ad angolo e limitandosi eventualmente a specificare di quale lingua si tratti in una didascalia all’inizio della sequenza, nel caso in cui non sia possibile capirlo subito dal contesto. Così gli autori possono evitare di dover studiare o inventare appositamente delle lingue che magari sarebbero usate solo in una breve scena.

Linguaggi simbolici

In tanti fumetti i linguaggi alieni o stranieri sono resi con segni incomprensibili al posto delle lettere, con alfabeti diversi dal nostro, o con parole o versi senza senso, così da rappresentare simbolicamente l’impossibilità di decifrarli. Ciò accade in certi episodi di Tintin, il cronista giramondo creato dal maestro belga Hergé nel 1929, in cui in qualche occasione i dialoghi degli indigeni sono scritti con gli alfabeti locali, come quello arabo o nepalese, e anche se i contenuti avessero un senso perfettamente corretto in quella lingua (com’è probabile, data la meticolosità documentaria di Hergé), risulta impossibile verificarlo per la maggior parte dei lettori, che così condividono coi personaggi la totale incapacità di capire le lingue in questione.
Altri esempi tipici si trovano in una storia di Topolino del 1947 disegnata da Floyd Gottfredson, in cui appare per la prima volta l’uomo del futuro Eta Beta. Questi è inizialmente incapace di parlare in Inglese, finché non tira fuori dal suo gonnellino senza fondo un traduttore simultaneo che gli permette di parlare qualunque lingua, comprese quelle degli animali, delle piante e perfino di certi oggetti, come il legno del pavimento. I linguaggi che ne risultano sono per noi del tutto incomprensibili e vengono resi con strani versi e simboli grafici. Altri fumettisti hanno invece cercato di rendere comprensibili i linguaggi stranieri, usando vari sistemi.
A volte bastano parziali deformazioni fonetiche o grafiche a rappresentare convenzionalmente una lingua diversa, che sarà così compresa facilmente dal lettore, ma non dai personaggi che non la conoscono.
Autori come Al Capp nelle sue strisce del montanaro Li’l Abner, o Will Eisner in tante storie del suo eroe mascherato Spirit, o Bonvi nella sua celeberrima satira militaresca delle Sturmtruppen, hanno giocato con accenti dialettali o stranieri per evocare la zona linguistica d’origine dei loro personaggi. Hanno invece usato con ironia dei dialetti per rappresentare lingue del tutto diverse autori come Jacovitti, che ha fatto parlare in napoletano gli Indiani d’America, o Hugo Pratt, che ha fatto parlare il veneziano ai Polinesiani.

 Gli autori di Asterix, René Goscinny e Albert Uderzo, hanno poi utilizzato metodi diversi per rappresentare indirettamente ogni singola lingua antica parlata nella loro serie: i Romani parlano in latino maccheronico e con accento italiano (che diventa romanesco nella versione italiana), i Goti ovviamente parlano in caratteri gotici, gli Egizi parlano per geroglifici, i Britanni parlano secondo le regole della sintassi inglese, e così via…

Altri autori ancora possono simulare delle lingue immaginarie alternando parole incomprensibili a parole nella lingua del lettore a cui si rivolgono. Un esempio famoso è il linguaggio che caratterizza gli Schtroumpfs creati nel 1958 dal belga Peyo. Questi piccoli folletti blu famosi in tutto il mondo chiamati Smurfs in Inglese, Schlümpfe in Tedesco, Pitufos in Spagnolo, Puffi in Italiano, Smurfarna in Svedese e Smurfen in Olandese, in ogni lingua prendono il nome dall’immaginaria parola che ripetono sempre e che usano dandole ogni volta qualunque significato vogliano, che di solito risulta chiaro dal contesto del discorso. Benché per il resto parlino in modo del tutto comprensibile, questo basta a dare la sensazione che stiano parlando in una loro lingua esclusiva. Un altro esempio rimasto abbastanza famoso è la frase “Epluracas orega”, pronunciata da un personaggio di una storia di Cino e Franco degli anni ’30 intitolata “La Misteriosa Fiamma della Regina Loana”, per ordinare la liberazione sua e dei protagonisti. La stessa frase sarà poi citata anche da Pratt nell’ultimo episodio di Corto Maltese, come una formula da pronunciare se ci si trova in pericolo…
In pratica le parole epluracas orega non significano nulla, ma suonano così bene in quel contesto da evocare indirettamente da sole l’intera lingua del popolo ignoto a cui apparterrebbero, esattamente come la frase “Klaatu barada nikto” nel film di fantascienza “Ultimatum alla Terra” di Robert Wise, o come la misteriosa e potentissima formula magica “Anàl natràc, utvàs betòt, dokièl dienvé” nel film “Excalibur” di John Boorman.

E che dire di certi linguaggi tipici che sembrano appartenere solo a un singolo personaggio? Accade per esempio col balbettio del figlioletto adottivo di Braccio di Ferro che, nelle storie originali degli anni ’30 di Elzie Crisler Segar fa lunghi discorsi ripetendo solo la parola glop, col padre adottivo che lo capisce perfettamente.
Da parte sua l’uomo del futuro Eta Beta, che dal 1947 continua ad appare saltuariamente nelle storie di Topolino, aggiunge davanti alle parole la lettera “p” (che però in Inglese in tal caso è muta…), mentre l’omino atomico Atomino Bip Bip creato da Romano Scarpa dice continuamente “bip” (forse per le particelle che emette mentre parla…), il buffo criminale Cattivik creato da Bonvi non pronuncia le finali e l’uomo di Neanderthal Java, amico di Martin Mystère, si esprime con inintelligibili grugniti di cui però il suo socio d’avventure è sempre in grado di comprendere istintivamente il significato con incredibile precisione.
Sono tutti modi in cui si è tentato di evocare degli strani linguaggi, ma senza dover inventare una lingua vera e propria e permettendo sempre al lettore di comprenderli, direttamente o per interposta persona.
Ma c’è anche chi preferisce fare le cose nel modo più difficile, per ottenere il risultato più efficace possibile. Se una lingua immaginaria sarà usata a lungo e costantemente, all’interno di una storia o una serie, in effetti può valere la pena di inventarla davvero, almeno parzialmente. È successo in storie di autori molto diversi tra loro, come gli americani Jess Marsh e Russ Manning, l’italiano Guido Crepax, o l’inglese Alan Moore…


L’Esperanto della giungla

Quando nel 1929 fu pubblicata sui giornali americani la versione a fumetti del romanzo di Edgar Rice Burroughs “Tarzan delle Scimmie”, in strisce giornaliere a puntate disegnate dal canadese Harold Foster, fu deciso di non utilizzare le nuvolette dei dialoghi e di mantenere una forma didascalica, quella che in Inglese si definisce da picture book, da libro illustrato, con dei testi contenenti un riassunto della storia originale al di sotto delle vignette. Ciò fece sì che il linguaggio delle scimmie teorizzato da Burroughs nei suoi romanzi, e di cui peraltro lo scrittore aveva inventato relativamente poche parole, non fosse molto parlato in quella prima storia disegnata. Per leggere una parola pronunciata da una scimmia, tratta direttamente dal romanzo, si dovettero aspettare quasi trenta puntate, ovvero un mese, quando un fratellastro scimmiesco di Tarzan è da lui costretto a dire Kagoda. Kagoda (arrendersi) è l’unico verbo scimmiesco citato nel primo libro e, com’è ovvio per una lingua semplice, resta sempre uguale senza coniugazioni. Quindi, forse anche a seconda del tono, di volta in volta può significare “ti arrendi?”, “arrenditi!” oppure “mi arrendo”, come in questo caso.

Il successo che arrise al personaggio, anche sotto forma di fumetto, presto comportò la prosecuzione anche della serie disegnata, sia in puntate giornaliere che domenicali, ma lo stile narrativo privo di nuvolette rimase lo stesso e sui giornali lo sarebbe rimasto per una trentina d’anni, quindi il problema di come far parlare le scimmie per il momento non fu minimamente affrontato. I vari sceneggiatori e artisti che si alternarono alla guida della serie si occuparono solo di raccontare e disegnare, ma non di far parlare i personaggi.
Quando però nel 1947 la casa editrice Dell Publishing decise di pubblicare sui suoi albi a fumetti anche storie inedite di Tarzan, e non più solo rimontaggi di episodi già apparsi sui giornali, il disegnatore Jess Marsh e gli sceneggiatori che collaborarono con lui si trovarono in una posizione un po’ diversa dai loro predecessori. Con Marsh, artista dallo stile essenziale e moderno ispirato a quello di Milton Caniff, i tempi erano maturi perché anche Tarzan diventasse un fumetto basato soprattutto sui dialoghi inscritti nelle tipiche nuvolette. A quel punto insomma fu necessario che Tarzan parlasse, e non solo in Inglese ma anche in altre lingue.
Infatti al contrario dell’Uomo Scimmia monosillabico del cinema, il Tarzan dei romanzi e dei fumetti è un poliglotta che parla molti idiomi europei e africani, veri o immaginari, e di tutte le lingue fattegli parlare dal suo creatore Edgar Rice Burroughs, la prima e più importante era appunto quella delle scimmie…

Quelle che hanno allevato Tarzan, nei romanzi sono chiamate da Burroughs genericamente scimmioni o grandi scimmie (in inglese great apes), ma a differenza delle vere scimmie dialogano verbalmente a livello elementare. Ciò forse non sarebbe del tutto impossibile dal punto di vista mentale, visto che alcune scimmie antropomorfe avrebbero imparato a comunicare col linguaggio dei gesti, ma le scimmie esistenti in natura non potrebbero articolare parole come quelle immaginate da Burroughs, a causa dell’inadatta conformazione della laringe che permette loro di emettere solo suoni intermittenti più o meno equivalenti a delle vocali.
Il disegnatore Russ Manning dal 1967 avrebbe aggirato ogni problema di verosimiglianza, chiarendo nei suoi fumetti che le grandi scimmie di Tarzan, o scimmie grigie, non sono né scimpanzè né gorilla, ma una specie del tutto immaginaria intermedia tra le due, dotata di maggiore intelligenza e più simile all’Uomo (e bisognerebbe forse aggiungere, anche con una laringe molto più adatta ad articolare delle parole…).

La cosa del resto era già stata in qualche modo anticipata dallo stesso Burroughs, che nel quarto romanzo del ciclo di Tarzan fa una precisa distinzione tra la specie delle grandi scimmie chiamata nella loro lingua Mangani, la specie dei gorilla chiamata Bolgani, e quella degli uomini chiamata Gomangani o Tarmangani, a seconda che il colore della loro pelle sia nero (Go) o bianco (Tar). Anche dalle parole che usano per indicarli si direbbe quindi che le grandi scimmie di Tarzan si considerino più affini agli esseri umani che ai gorilla.
Curiosamente però, sia nei romanzi che nei fumetti, la stessa lingua è parlata anche da altre scimmie come bertucce, babbuini e gorilla (che nella realtà non potrebbero di certo parlare), così come da alcuni popoli immaginari, regrediti a livello semibestiale o rimasti a uno stadio preistorico, che abitano terre perdute isolate dal resto del mondo come la città d’oro di Opar. Inoltre Tarzan usa la stessa lingua per parlare anche con animali come elefanti e leoni, che pur non potendo rispondere a volte sembrano capirlo, visto che gli obbediscono. Insomma si direbbe quasi che queste scimmie parlino una specie di Esperanto della giungla…

Nei suoi romanzi e racconti Burroughs aveva già introdotto vari termini della lingua delle scimmie, per lo più una lunga serie di nomi di animali: Bara l’antilope, Buto il rinoceronte, Dango la iena, Gorgo il bufalo, Duro l’ippopotamo, Histah il serpente, Horta il cinghiale, Manu la bertuccia, Numa il leone, Pacco la zebra, Pamba il topo, Pisah il pesce, Sabor la leonessa, Sheeta la pantera, Tantor l’elefante e qualche altra parola del genere. Inoltre aveva citato alcuni elementi naturali, come Ara il lampo, Goro la Luna e Kudu il Sole.
Pochi altri termini si potevano dedurre da alcuni nomi propri scimmieschi di cui lo scrittore aveva fornito la traduzione, tra i tanti che aveva citato nel periodo in cui Tarzan aveva vissuto tra le scimmie e non solo.
Lo stesso Tarzan, in realtà un tipico nome zingaro, nella finzione romanzesca è il primo termine della lingua delle scimmie citato da Burroughs ed è composto dalle parole tar (bianco) e zan (pelle), ovvero pelle bianca, secondo una sintassi del tutto simile a quella inglese che pone sempre l’aggettivo prima del verbo.
Ma a parte un altro paio di nomi come Tub-Lat (Rotto-Naso) e Zu-Tag (Grosso-Collo) e il nome dato al figlio di Tarzan, Korak (Uccisore), di tutti gli altri nomi di scimmie che pure dovevano avere qualche significato, né lo scrittore originale né autori successivi hanno dato spiegazioni. Solo dal nome della madre adottiva di Tarzan, la scimmia Kala, furono fatti poi derivare i termini kalan (femmina), kalu (madre) e kal (latte), probabilmente solo perché Burroughs nel romanzo si riferiva a lei chiamandola Kala la femmina, anche se femmina e maschio erano tra le poche parole che nella lingua immaginata dallo scrittore già esistevano…


Tra parentesi tutti i nomi scimmieschi, anche se finiscono con “o”, “a”, “i”, non sono maschili né femminili, né singolari né plurali. Tutte le parole sono neutre e restano invariate sia al singolare che al plurale. Per indicare il genere si possono usare i termini Bu (maschio) e Mu (femmina), citati da Burroughs nei racconti. Per esempio facendo precedere da Bu la parola Balu (bambino, figlio, cucciolo), si forma l’espressione Bu-Balu (bambino maschio). Può anche darsi che bu e mu siano aggettivi e le successive parole per maschio e femmina, atan e kalan, siano dei sostantivi, ammesso che le scimmie possano distinguere le due cose.
È poi forse superfluo dire che le scimmie, anche se grandi, non usano per niente né articoli né preposizioni e nemmeno pronomi… Quindi la famosa e ingenua frase “io Tarzan, tu Jane” dei film, che nei romanzi non esiste, Tarzan non avrebbe neppure saputo pronunciarla prima di aver imparato qualche lingua più umana.
Tra le poche altre parole nella loro lingua apparse nei racconti di Burroughs, c’è il suono onomatopeico Dum-dum, che è come dire Tam-tam e che letto all’inglese si pronuncia quasi esattamente allo stesso modo.
C’è poi la parola Hu, ovvero sì, probabilmente l’unica di questa lingua che anche delle vere scimmie potrebbero emettere. Infatti la si sente ripetere spesso, chissà poi se con lo stesso significato, nel film “Greystoke – La Leggenda di Tarzan Signore delle Scimmie”, una pellicola del 1984 ispirata al primo romanzo del ciclo con relativa fedeltà ma anche con ambizioni di realismo, cosicché lì le scimmie non usano la lingua immaginata da Burroughs e si limitano a ripetere a intermittenza i loro consueti vocalizzi inarticolati.
C’è infine il grido di avvertimento Kreeg-ah! (pericolo-attenzione!) ovvero “attenzione al pericolo!”, che nelle storie disegnate è usato spesso, sia come consiglio che come minaccia, anche deformato in vari modi. Ma per quasi tutto il resto di questa lingua si sono dovuti aspettare i dialoghi all’interno degli albi a fumetti…

Il linguaggio delle grandi scimmie venne usato nelle storie a fumetti disegnate da Jess Marsh e pubblicate dalla Dell fin dal primo episodio inedito apparso direttamente in albo, “Tarzan and the Devil Ogre” (Tarzan e l’Orco Diabolico) pubblicato nel 1947 sull’albo Four Color n°134, in cui non si capisce bene perché, le grandi scimmie erano diventate delle scimmie bianche, infatti chiamavano sé stesse tarmangani come gli uomini.
È chiaro che il loro linguaggio fu basato sui libri di Burroughs, ma molte parole sembra siano state inventate nei fumetti. Nelle storie disegnate da Marsh, le pur approssimative traduzioni che nelle nuvolette seguono tra parentesi dopo le frasi in lingua scimmiesca e la sostanziale coerenza che questo linguaggio immaginario ha mantenuto da un albo all’altro e da un decennio all’altro, dimostrano che non si tratta di parole inventate ogni volta a caso, ma di una vera e propria lingua. Si direbbe che gli sceneggiatori si fossero preparati un piccolo vocabolario Scimmiesco-Inglese, per usare sempre le stesse parole per gli stessi significati.
In quel primo episodio le scimmie di Tarzan usano termini come atuk (pace), bahno (dimenticare), dando (fermo, fermarsi, restare), gom (correre, fuggire), gra (aiutare), rand (indietro), unk (andare, muoversi), vando (bene, buono, evviva), wala (nido, casa, capanna), yato (vedere, guardare, cercare), yo (amico), yud (venire), yuto (tagliare, liberare), molte delle quali saranno usate ancora dagli autori degli anni ’60 e ’70.
Sugli albi degli anni ‘50 della serie di Tarzan, che dopo due numeri di prova era diventato titolare di una propria testata bimestrale dal gennaio 1948, apparivano spesso dei piccoli dizionari illustrati Scimmiesco-Inglese coi termini più vari, come gugu (davanti), hul (stella), kambo (giungla), kas (saltare), neeta (uccello), sopu (frutto)… Intanto le grandi scimmie cambiarono colore, diventando prima brune e poi grigie, colore che sugli albi a fumetti rimase la loro caratteristica, poi esportata da Russ Manning anche sui giornali.
Soprattutto si dovettero inventare un po’ di verbi scimmieschi, che erano quasi del tutto assenti nei romanzi.
Ma le grandi scimmie usano le loro parole indifferentemente come nomi, verbi o avverbi senza bisogno di cambiare desinenze, per cui molte indicano sia una cosa che l’azione corrispondente, come b’wang (mano, portare), kob (colpo, colpire), jabo (riparo, nascondere), lat (naso, annusare), nala (su, alzare), nur (bugia, mentire), ud (bevanda, bere), utor (paura, temere), yad (orecchio, ascoltare), yuto (taglio, tagliare), zut (fuori, uscire). Le coniugazioni ovviamente non esistono per niente, il ché semplifica di molto le cose…
Naturalmente poiché gli autori sono americani certe espressioni seguono la sintassi inglese, come yud rand (venire indietro) che significa anche tornare, equivalendo perfettamente all’inglese “come back”.

Visto che il vocabolario delle scimmie restava comunque piuttosto limitato, seguendo l’esempio di Burroughs furono anche formate molte parole composte per descrivere cose o concetti più complessi, attraverso suffissi a cui si possono poi aggiungere altri suffissi ancora, un'altra cosa in comune con l’Esperanto…
Una delle parole composte più usate fin dal 1947 fu bundolo, un termine che molto spesso le grandi scimmie e lo stesso Tarzan gridano in battaglia, come un vero e proprio urlo di guerra. È composto da bund (morto, morire) e olo (lottare) e si può tradurre “lottare a morte”, attaccare, o semplicemente uccidere. Unk-nala (andare-su) indica invece l’azione più comune per le scimmie, arrampicarsi. Infatti le scimmie di Tarzan si differenziano nettamente dai gorilla anche perché, nonostante la loro mole, si arrampicano sugli alberi.
Un esempio di come le parole delle scimmie possono innestarsi l’una sull’altra è dato proprio dai termini composti a partire da Den (albero). Da questo deriva prima balu-den (figlio-albero o albero piccolo, cioè ramo) e poi  pand-balu-den, (ramo del tuono, cioè fucile) e ry-balu-den (ramo curvo, cioè arco).
Altre parole composte sono gu-mado (in pancia-zoppo), che significa malato o ferito, kree-gor (pericoloso-grugnito) che significa urlo, tar-bur (bianco-freddo) che significa neve, wa-usha (verde-vento) che significa foglia. Invece il termine gree-ah (amore, amare, ammirare) forse può essere interpretato alla lettera come “attenzione alla bellezza”, visto che kreeg-ah è “attenzione al pericolo”, sempre che gree significhi bellezza…
Il suffisso zu (grosso) compare in espressioni come zu-vo (grosso-muscolo, cioè forte), zu-kut (grosso-buco, cioè caverna), zu-gash (grosso-dente, cioè lunga zanna, coltello), zu-gor (grosso-grugnito, cioè ruggito). Invece il termine opposto eta (piccolo, poco) è usato in parole come eta-gogo (poco-parlare, cioè sussurro), eta-koko (poco-caldo, cioè tiepido), eta-nala (poco-su, cioè basso), etarad (piccola-lancia, cioè freccia).
Il rafforzativo eho (molto) dà luogo a termini come eho-dan (molto-pietra, cioè duro), eho-kut (molto-bucato, cioè profondo), eho-lul (molto-acqua, cioè bagnato), eho-nala (molto-su, cioè cima).
L’analogo suffisso ho (molti) indica quasi un plurale, ovvero un gruppo di tante unità. Così fogliame è ho-wa-usha (molte-foglie), foresta ho-den (molti-alberi), villaggio ho-wala (molte-case), tribù ho-hotan (molti-clan).

Certe parole altrimenti inesistenti si formano aggiungendo il suffisso di negazione tand (no, non, senza) al loro contrario, come tand-ho (non-molti, pochi), tand-lan (non-destra, sinistra), tand-litu (non-acuto, ottuso, stupido), tand-lul (senza-acqua, asciutto), tand-nala (non-su, giù, abbassare), tand-panda (senza-rumore, silenzio, pace), tand-popo (non-mangiare, digiunare), tand-ramba (non-giacere, svegliarsi, alzarsi), tand-unk (non-andare, restare), tand-utor (senza-paura, coraggio, coraggioso), tand-vulp (non-pieno, vuoto).
Il suffisso b’ indica poi un elemento attaccato o intorno a qualcosa. Così da wang (braccio) deriva  b’wang (mano), da yat (occhio) deriva b’yat (testa), da zan (pelle) deriva b’zan (peli, capelli), da zee (gamba) deriva b’zee (piede), mentre abu (ginocchio) e bandl (gomito) non sono in relazione con altre parti anatomiche.
Di una parola particolare come por (compagno, nel senso di partner sessuale) si può specificare il genere distinguendo tra por-atan (compagno-maschio, “marito”) e por-kalan (compagna-femmina, “moglie”). Anche il genere dei fratelli si può specificare. Aggiungendo al neutro balu (bambino, figlio) il prefisso ao (ragazzo) si ottiene il maschile abalu (ragazzo-figlio, fratello), mentre il femminile è za-balu (ragazza-figlio, sorella).
Meno chiaro è il significato della desinenza do. Forse significa imitare, diventare, o fare, come in Inglese. In tal caso da dan (pietra) verrebbe dan-do (fare o imitare la pietra, cioè star fermo), da gund (capo) potrebbe venire gando (fare o diventare il capo, cioè vincere), da kor (camminare) verrebbe kor-do (fare o imitare dei passi, cioè ballare, danza) e da van (bene) deriverebbe van-do (fare bene, o andare bene, cioè buono).
Altre parole sembrano derivate l’una dall’altra senza regole precise, ma è chiara la relazione tra termini come ala (sollevarsi, sorgere) e nala (su, alzare), amba (cadere) e ramba (giacere, dormire), kos (nemico) e kob (colpire), lana (aculeo) e lano (zanzara), pand (tuono) e panda (rumore), po (fame) e popo (mangiare), rem (prendere, catturare) e ret (bloccare, legare), ugla (odio) e ungla (odiare), wang (braccio) e yang (nuotare), wa (verde) e m’wa (blu), wo (questo) e wob (quello), yat (occhio) e yato (guardare), yel (qui) e yeland (là); mentre argo (fuoco), aro (lanciare) e arad (lancia) si direbbero essere derivati tutti da ara (fulmine).
Invece non sono in relazione termini contrapposti come adu (perdere) e gando (vincere), rep (vero) e nur (bugia), sord (cattivo) e vando (buono), zor (dentro) e zut (fuori). Anche tand (no) è giustamente del tutto diverso da rak, che col tempo prese piede al posto di huh per significare sì. In questo e pochi altri casi fu inventato un termine già esistente, cosicché alle grandi scimmie non manca neppure qualche sinonimo.

Negli albi di Tarzan degli anni ’50, per la verità questa vera e propria lingua non era sempre sfruttata. In molte storie era tradotto direttamente in inglese la maggior parte di ciò che dicevano le scimmie, che tra l’altro, dato lo stile essenziale di Jesse Marsh, a volte erano disegnate in modo un po’ approssimativo. Col tempo il suo modo di disegnare si fece più realistico e ricco di dettagli e all’inizio degli anni ’60 le grandi scimmie erano tornare a parlare un po’ di più nella propria lingua, almeno all’inizio di ogni frase. Infatti più era realistico il disegno, più c’era bisogno di farle parlare in modo non umano, per rendere il tono delle storie altrettanto plausibile. Nello stesso periodo anche sui giornali le strisce e tavole di Tarzan, allora disegnate da John Celardo, cominciarono a essere pubblicate non più con le didascalie ma con le nuvolette dei dialoghi.

Nel 1965, a causa di problemi di salute di Marsh che morì l’anno seguente, toccò a Russ Manning subentrare come disegnatore titolare degli albi di Tarzan, di cui divenne ben presto uno degli autori più importanti.
Manning collaborava alla testata realizzandone dei personaggi secondari fin dal 1952 e diventò il nuovo artista della serie principale a partire da una storia sceneggiata da Gaylord DuBois che condensava in venti pagine una nuova versione del primo romanzo di Tarzan. I suoi disegni imposero uno stile ancora più realistico e preciso e anche le scimmie si fecero ora molto più verosimili. Mantenere nettamente separato il linguaggio umano dal loro, che essendo semplice poteva passare per una serie di grugniti, si rendeva a questo punto ancora più necessario, per cui le traduzioni simultanee erano ora sempre inserite tra parentesi.
L’uso abituale della lingua delle scimmie, che è poi anche quella della città di Opar, fu introdotto da Manning anche nei fumetti di Tarzan pubblicati dai giornali dopo che divenne autore dei testi e dei disegni sia delle strisce giornaliere, dal 1967 al 1972, che delle tavole domenicali, dal 1968 alla sua morte avvenuta nel 1979.
Nelle sue storie, spesso Tarzan pronuncia parole delle scimmie inframmezzate a quelle umane anche se non sono presenti degli animali, soprattutto se si trova nel bel mezzo dell’azione, il ché è del tutto naturale trattandosi in pratica della sua lingua madre. A quel punto il linguaggio delle scimmie era così conosciuto dai lettori abituali che a volte Manning non si curava più neppure di tradurlo. Anche se non è stato lui a inventarlo, si può dire che nelle sue storie lo abbia un po’ affinato, usando espressioni come yuto thub (ferire il cuore) o bundolo thub (uccidere il cuore) per dire “far soffrire”. Al tempo stesso limitò l’uso delle parole composte, mantenendo giustamente la lingua scimmiesca sul piano più semplice. Quanto agli albi di Tarzan, a fine anni ’60 rimasti orfani dei disegni di Manning, poco tempo dopo cambiarono editore e furono affidati a Joe Kubert. In quel periodo fu pubblicato un vocabolario di quattro pagine (molto ampio, benché non del tutto completo) della lingua delle scimmie, che apparve in Italia su Tarzan Gigante n°14 del 1973.

 Parole da pitecantropi

La maggior parte delle parole della lingua delle scimmie dovettero essere state inventate appositamente per i fumetti, ma molte furono invece riprese da termini appartenenti a un’altra lingua creata da Burroughs per il settimo volume del ciclo di Tarzan, “Tarzan il Terribile”. Qui il protagonista esplora una terra isolata dal resto del mondo e rimasta ferma alla preistoria in cui sopravvivono animali di epoche molto diverse, come tigri dai denti a sciabola e triceratopi, e in cui gli esseri umani sono dei pitecantropi quadrumani con la coda. Nella loro lingua quella terra si chiama Pal-ul-Don, “Luogo degli Uomini” (o per meglio dire “dei Pitecantropi”).
Una delle prime cose che Tarzan fa all’inizio del romanzo è imparare la lingua locale, a cui l’autore dedica molto più spazio che a quella delle scimmie, e si può verificare subito che nei romanzi si tratta di due lingue del tutto diverse. Infatti in quella delle grandi scimmie gli uomini bianchi e neri si chiamano rispettivamente tarmangani e gomangani, figlio si dice balu, leone si dice Numa, il Sole si chiama Kudu e la Luna Goro. Nella lingua di Pal-ul-Don invece gli uomini bianchi si chiamano Ho-Don e quelli neri Waz-Don (sempre con l’aggettivo che precede il nome come in Inglese), figlio si dice Dor, leone si dice Ja, il Sole si chiama As e la Luna si chiama Bu, una parola che invece nella lingua delle scimmie significa maschio.
In origine non c’era insomma nessun legame tra i due idiomi, molto diversi anche nella grammatica, poiché quello di Pal-ul-Don aveva almeno un articolo determinativo, Jad, e preposizioni come appunto ul (di).

Nonostante ciò gli autori degli albi di Tarzan, tra gli anni ‘40 e ’60, integrarono la lingua delle scimmie anche con parole appartenenti alla lingua di Pal-ul-Don, come A (luce), Bal (dorato), Bar (duello, battaglia), Ben (grande), Gund (capo, re), Guru (terribile), Jar (strano), Pal (luogo), Pastar (padre), So (mangiare), Tor (bestia), Ved (monte), Xot (arrivare). Molti termini di Pal-ul-Don erano parti di nomi a cui Burroughs non aveva attribuito un significato, ma nei fumetti assunsero un senso preciso passando nella lingua delle scimmie, che si arricchì così anche di parole come At (coda), Den (albero), Es (ruvido), Ko (potente), Lot (faccia), Lu (fiero, feroce), Pan (morbido), Sat (coperta, coprire, chiudere), Tan (guerriero), Tu (brillante).
Per lo più i significati dati a tali parole sono abbastanza coerenti coi soggetti a cui erano attribuiti in origine.
Per esempio Ko-Tan (Potente-Guerriero) era il re di A-Lur (Città Lucente), la capitale degli Ho-Don, Lu-don (fiero-uomo) era il locale gran sacerdote, Om-At (lunga coda) e Es-Rat (ruvida-coperta) erano due Waz-Don che si contendevano il comando di una tribù, Pan-At (morbida-coda) era la ragazza di uno di loro e così via…

Molte di queste parole da pitecantropi, come Dan (roccia, pietra), Dak (grasso), Kor (cammino, camminare), Lul (acqua), Mo (corto), Om (lungo), Pal (luogo), Pele (valle), Ta (alto), si inserirono così bene nella lingua delle scimmie da originare rapidamente a loro volta anche molte parole composte come bo-pele (piatta-valle, cioè savana), dan-sopu (roccioso-frutto o frutto di pietra, cioè noce di cocco), dak-lul (grassa-acqua, cioè lago), ga-lul (rossa-acqua, cioè sangue), gom-lul (acqua che corre, cioè fiume), lul-kor (camminare in acqua, cioè navigare o nuotare), mo-kor (corto-cammino, cioè vicino), om-kor (lungo-cammino, cioè lontano), om-tag (lungo-collo, cioè giraffa) ta-pal (alto-luogo, cioè collina), zu-dak-lul (grosso-lago, cioè mare, oceano).
Il significato di Kor fu modificato rispetto a quello che aveva nel romanzo. In origine voleva dire gola, nel senso di stretta zona di terreno percorribile, e indicava i territori dominati dalle varie tribù di pitecantropi, come Kor-ul-Ja (Gola dei Leoni) o Kor-ul-Lul (Gola dell’Acqua). Ma si sa che le scimmie danno alle parole significati ampi, senza distinguere nomi e verbi, quindi è comprensibile che per loro kor significhi camminare.

Intorno al 1950, con l’apparizione della terra perduta di Pal-ul-Don sugli albi a fumetti di Tarzan, iniziò a verificarsi anche l’inverso e la parola delle scimmie yo (amico) passò a sua volta nella lingua preistorica. Ma sulle pagine disegnate da Jess Marsh i popoli preistorici persero coda ed estremità da scimmia e la lingua dei più evoluti fu per lo più tradotta direttamente in Inglese, mentre ai meno evoluti, i Tor-O-Don (gli uomini bestia), i soli a conservare qualche tratto scimmiesco, fu fatta parlare la stessa lingua delle grandi scimmie.
Invece a partire dal 1967, con una nuova riduzione a fumetti disegnata da Russ Manning del romanzo “Tarzan il Terribile”, gli abitanti di Pal-ul-Don furono rappresentati come dei veri e propri pitecantropi caudati che parlavano una lingua in qualche modo diversa, più o meno come accadeva nel libro di Burroughs.
Rimasero infatti varie differenze tra la lingua delle scimmie e quella dei pitecantropi. Questi ultimi per esempio hanno anche una parola, Otho, che significa Dio, un’idea che le scimmie non sanno concepire. Allo stesso modo, a differenza delle scimmie che non sanno contare, i pitecantropi hanno delle parole per indicare i numeri, come adenen (cinque), l’unica che conosciamo perché Burroughs l’ha citata nel suo libro.
Un’altra differenza tra le due lingue è il plurale. A Pal-ul-Don secondo Burroughs si ottiene raddoppiando la lettera iniziale delle parole, per cui il plurale di Don (uomo) è D’don e si legge Dàdon. Ma questa forma ideata dall’autore è rimasta solo sulla carta, visto che è descritta in una sua nota ma nei romanzi e fumetti di Tarzan non è mai usata (nei fumetti originali il plurale viene indicato all’Inglese, aggiungendo una s finale).

In ogni caso, quando dal 1968 Russ Manning fece ritornare più volte Tarzan a Pal-ul-Don nelle strisce scritte da lui stesso, mantenne la lingua di quella terra perduta nettamente distinta da quella scimmiesca, facendo pronunciare ai pitecantropi delle parole come An (lanciare, colpire), Ont (prendere, portare), Pala (salvare), Panta (donna), Raka (salire), Sa (no, senza), Sats (parlare, dire), Ston (venire), Un (occhio, guardare, cercare), V’rar (qui), Vro (legare), parole totalmente diverse da quelle che erano state inventate per far esprimere concetti simili alle grandi scimmie. Si può anche notare che, a differenza delle scimmie che chiamano mangani sia i maschi che le femmine, i pitecantropi hanno una parola specifica per dire donna, che sembra composta da pan (morbido) e ta (alto), come dire alto-morbido, forse con riferimento ai seni…
Manning cita anche le espressioni originali di Pal-ul-Don con maggior precisione di quanto avesse fatto lo sceneggiatore della versione a fumetti di “Tarzan il Terribile”, riportando ora correttamente i termini Jad-ben-Otho (Il grande Dio) e Dor-ul-Otho (Figlio di Dio), che in quella storia da lui stesso disegnata erano invece stati contratti in Jadotho e Dorotho. Altre parole composte sono per esempio Jar-Don (strano-uomo, straniero), Bar-Dan (pietra da battaglia, clava) e Bar-An (lanciarsi in battaglia, attaccare), che gli Ho-Don usano come grido di guerra e che in pratica è l’equivalente nella loro lingua della parola scimmiesca bundolo.
Data la natura primitiva di entrambe le lingue, ciò che queste hanno invece sempre in comune è l’assenza di qualsiasi tipo di coniugazione dei verbi, che restano sempre uguali senza distinzioni né di persona né di tempo, e anche l’assenza di pronomi. Se si vogliono indicare dei soggetti o dei complementi oggetti, si devono usare dei nomi propri o i nomi generici della specie o razza a cui ognuno appartiene.

Riguardo a Pal-ul-Don, Russ Manning introdusse anche nuove idee e usanze. Per rendere più plausibile una simile terra preistorica in mezzo a un’Africa ormai totalmente esplorata, elaborò la teoria che quella e altre terre del passato delle storie di Tarzan vengano raggiunte in realtà attraverso un passaggio nel tempo che collega le diverse epoche. Fa poi cavalcare ai Waz-Don i grandi mammiferi preistorici detti indricotherium e che loro chiamano Ben-Ko (grandemente-potenti, potentissimi), mentre agli Ho-Don fa montare i triceratopi, che loro chiamano Gryf. Questi grandi rettili dai tre corni nel romanzo di Burroughs erano invece cavalcati solo dai Tor-O-Don, a cui Manning continua a far usare oltre a vocaboli di Pal-ul-Don anche molte parole tipiche delle grandi scimmie, disegnandoli come esseri più vicini a degli australopitechi che a degli uomini.
Spesso comunque, approfittando del fatto che Tarzan e suo figlio Korak parlano perfettamente la lingua di Pal-ul-Don, Manning tenderà ad accantonare il linguaggio dei pitecantropi, traducendo tutto ciò che dicono, salvo ricominciare a farli parlare la loro lingua quando giunge tra loro qualche nuovo visitatore dal presente. Infatti fa tornare varie volte Tarzan in quella terra, di cui nel 1969 inventò anche un nuovo popolo, gli uomini alati, che parlano una lingua del tutto diversa, simile a fischi di uccelli che restano indecifrabili.
Anche altri strani popoli tratti dai romanzi di Tarzan scritti da Burroughs e che non vivono a Pal-ul-Don, come gli uomini pazzi della città di Xuja o i minuscoli Uomini Formica, parlano ognuno una propria lingua completamente originale e indipendente, di cui nei fumetti disegnati da Manning vengono dati in più occasioni dei piccoli saggi, ma senza che ne siano quasi mai chiariti con molta precisione i significati.

Voci sotterranee

Nel 1965, sulle pagine della neonata rivista Linus, anche un fumettista italiano altrettanto pignolo e maniacale si prese la briga di inventare una lingua per un popolo immaginario. L’autore è Guido Crepax, che nel secondo episodio della serie di Neutron (di cui in seguito la protagonista diventerà Valentina) creò il misterioso popolo dei Sotterranei. Sono esseri che vivono al buio e quindi sono ciechi, ma sono anche dotati del potere della vista paralizzante, un potere che ha anche l’americano Philip Rembrandt (alias Neutron), imparentato alla lontana con loro per aver avuto tra i suoi antenati una donna del loro popolo.
Sicuramente una delle cose che contribuiscono a creare inquietudine in occasione delle apparizioni dei Sotterranei, uomini e donne calvi e glabri, coperti da tute attillate e dalla magrezza diafana, che emergono dalle oscure viscere della terra come se provenissero da una sorta di inconscio collettivo, è anche lo strano e apparentemente incomprensibile linguaggio che parlano, una lingua dalle vaghe sonorità precolombiane, di cui però l’autore usa ogni parola con cognizione di causa, sapendo esattamente cosa significa e cosa sta facendo dire ai suoi personaggi. Infatti il primo episodio in cui appaiono i Sotterranei è accompagnato anche da una pagina contenente la precisa traduzione di ogni frase da loro pronunciata in quella storia.
Questa volta è un linguaggio più complesso, con una vera e propria grammatica, pronomi e coniugazioni e se certe parole lunghe piene di T e con desinenze che finiscono spesso in N in effetti ricordano un po’ la lingua azteca, in realtà le radici di molte parole sono più vicine a quelle inglesi e tedesche, (una volta tanto che una lingua viene inventata da un autore italiano, per l’appunto si tratta proprio di un anglofilo…).
È quindi un linguaggio nella sua struttura non molto diverso da quelli nord-europei, ma camuffato con l’aggiunta di suoni particolari in modo da farlo apparire più complicato, esotico e un po’ straniante… Ciò non toglie che chi mastichi un po’ di inglese e di tedesco possa riuscire a cogliere i significati di varie parole.
Ciò che nelle sonorità produce una certa distanza rispetto alle lingue nordiche è il fatto che qui le parole si leggono come si scrivono senza troppe regole di pronuncia. A ogni lettera sembra corrispondere un suono, più o meno all’italiana o come nell’Esperanto, anche se non è chiaro come si pronuncino lettere come G e J (forse la prima dura e la seconda morbida), o una lettera molto usata come la W, o un gruppo come SH (probabilmente all’inglese). La precisione di Crepax giunge comunque a fornire per tutte le parole anche gli accenti, per assicurarsi che siano lette correttamente. Comunque cadono quasi sempre sulla prima sillaba.

Dalle traduzioni fornite dall’autore, sia nel primo che in altri successivi episodi di Valentina in cui i Sotterranei appaiono, si comprende innanzitutto che i nomi finiscono per lo più in A, come Únkara (terra), oppure in O, come Wàto (acqua) e Hérto (coraggio), questi ultimi due chiaramente derivati dagli equivalenti inglesi water e heart. Ma ciò non ha relazione con il genere, infatti terminano in A sia Màtna (uomo) che Màutia (donna). Anche Màtna somiglia all’inglese man, con l’aggiunta di due lettere per renderlo meno riconoscibile.
Il plurale, come l’infinito e la maggior parte delle voci plurali dei verbi, si ottiene aggiungendo una N finale, come in Màtnan (uomini), Màutian (donne), Geqùndan (danze), Wàrdan (parole) o Tàglan (capelli)… Un ennesimo termine affine all’inglese è appunto Wàrda (parola), così come lo sono Dàut (morte) e Hélta (aiuto). I verbi corrispondenti a queste ultime due parole sono Dàutan (uccidere) e Héltan (aiutare).
In genere l’imperativo al singolare è uguale all’infinito, come Métan (mangiare, mangia!) e Vésian (vestirsi, vèstiti!). Altri verbi hanno desinenze diverse come Qam o Qem (vieni!, venite!, venga!). Notare che anche Qam e Métan somigliano ai corrispondenti inglesi “come” (scritto come si legge) e “eat”. A volte la desinenza finale diventa EN, come negli imperativi plurali Wàrpen (gettiamo!) e Dàuten (uccidete!). Altre forme della seconda persona plurale dell’imperativo finiscono in AD come Qìmad (venite!) e Bàirad (conducete!).
Al presente la terza persona singolare cambia la desinenza AN con ID, come in Sin Dàutid (essa uccide) e Sin Ístid (essa è), che ha la radice uguale al tedesco ist. Fa eccezione il verbo avere che alla terza persona femminile fa Sin Habài o Sin Habàit (essa ha). Il verbo dire invece alla prima persona singolare fa Ih Qeda (io dico) e alla terza persona del passato fa Qad (ha detto). Le persone plurali del presente restano uguali all’infinito, come Wéit Dàutian (noi uccidiamo), Wéit Génan (noi andiamo) o Wéit Màgan (noi possiamo).
I pronomi/soggetti Ih, Sin e Wéit derivano evidentemente dagli equivalenti inglesi, I, she e we, e da quelli tedeschi ich, sie e wir. I verbi andare e potere sembrano derivati dal tedesco gehen e forse dall’inglese may.
Nel futuro della lingua sotterranea il verbo è preceduto al singolare da Wàrt e al plurale da Wàrtan, un verbo forse derivato dal tedesco warten (aspettare) o forse dall’inglese to want (volere). Esempi di verbi al futuro sono le terze persone singolari Sin Wàrt Gìban (essa darà) e Wàrt Bòren (nascerà) e le terze persone plurali Wéit Wàrtan Gréipan (noi assaliremo) e Wéit Wàrtan Nésjan (noi salveremo). Ancora una volta i verbi dare e nascere sono affini alle versioni inglesi, to give e to born, e ancor più a quelle tedesche, geben e geboren.

Per creare il participio presente nella lingua dei Sotterranei si aggiungono in fondo all’infinito le lettere DA, come in Sàihanda (vedente, che vede) e Làutanda (suonante, che suona, ovvero sonoro) mentre per fare il participio passato basta aggiungere in fondo all’infinito una A, come in Dàutana (ucciso, morto).
I participi possono valere anche come aggettivi, infatti alcuni aggettivi terminano in DA e altri in NA, come Sìlda (corto), Jghna (giovane) e Hìmana (celeste, del cielo). Altri aggettivi finiscono per MA, come Wàihma (morbido) e Wàrma (caldo), che deriva dalla parola warm comune sia al tedesco che all’inglese. Altri ancora possono terminare in modo diverso, come i rafforzativi Màkla (grande), Hàuhta (superiore) e Hàuhtsa (supremo). Per queste ultime due parole l’autore ha di certo preso spunto dal tedesco Haupt (capo), infatti sono usate tra l’altro in un breve discorso tenuto dal Màkla Hàuhtsa Màtna (Grande Supremo), il preteso dittatore dei Sotterranei, che nei suoi vaneggiamenti di potere riecheggia i toni dei discorsi hitleriani.

Come in inglese, gli aggettivi e i participi non hanno plurale e precedono i nomi. Così il nome dei Sotterranei nella loro lingua è Blìntana Màtnan (Uomini Ciechi), mentre quello di un altro popolo sotterraneo loro nemico è Áran Màtnan (Uomini di Ferro), visto che indossa delle strane armature. Anche cieco e ferro sono chiaramente derivati dai corrispondenti inglesi blind e iron, di cui il primo in pratica è stato trasformato in un participio passato della lingua sotterranea (come dire accecato…), mentre il secondo è stato trascritto più o meno come si legge. Gli uomini e le donne di superficie sono invece chiamati Hìmana Màtnan (uomini del cielo) e Hìmana Màutian (donne del cielo), poiché la nostra terra per i Sotterranei è appunto il loro cielo.
Tra i Sotterranei alcune preposizioni sono sostituite da suffissi. Ad esempio per dire “di noi” si aggiunge la desinenza RA alla parola Únka (noi) ottenendo Únkara (nostro). Allo stesso modo si aggiunge la desinenza NA alla parola Hìrid (qui) per ottenere Hìridna (da qui). Anche il complemento oggetto noi è derivato dal tedesco uns, mentre la parola che significa qui è simile sia all’inglese here che al tedesco hier.
Una delle poche vere preposizioni è Du (a, verso, in direzione di), che è del tutto equivalente all’inglese to.
Altro avverbio ispirato a lingue nordiche è Shnen (presto) che è simile al tedesco schnell. Lo stesso si può dire del pronome Mih (me, mi), simile all’inglese come la negazione Netn (non), che come in Inglese non precede il verbo ma lo segue. Di altre parole l’origine è meno evidente, come Dàima (questo/questa). A volte Crepax attinge a destra e a manca. Così la radice Hab del verbo avere viene di certo dal latino, mentre la parola Ikta (pesce) viene dal greco ictys e la parola Amén (in verità) è più egizia o ebraica che sotterranea…

Le voci dei Sotterranei riecheggiarono ancora in una storia di Valentina del 1972 intitolata “Il Piccolo Re”, in cui la sedicente strega Baba Yaga rapisce il figlio della protagonista e di Philip Rembrandt per consegnarlo alla nuova dominatrice del sottosuolo, la Màkla Hàuhta Haubqéna (Gran Regina Superiora), che vorrebbe fare del bambino celeste che discende dal suo popolo il nuovo Grande Supremo. Haubqéna sembra fondere in una sola parola il tedesco Haupt e l’inglese queen, e anche il termine con cui il bimbo viene chiamato, Làita Kùni (piccolo re), è chiaramente una deformazione dell’inglese little king, fuso anche col tedesco konig.
Anche se nelle storie successive di Valentina i Sotterranei non torneranno spesso, faranno sempre capolino ogni tanto, trasformati in figure ancor più ieratiche, misteriose e inquietanti, perciò anche meno ciarliere…
Guido Crepax realizzò poi anche un esempio di puro simbolismo linguistico col breve racconto intitolato U, evidentemente ispirato alla commedia “Il Rinoceronte” di Ionesco e realizzato in due parti tra il 1970 e il 1975. Quasi tutti i personaggi, fatta eccezione per il protagonista, sono rappresentati come animali e quindi parlano pure come tali, emettendo versi d’ogni tipo al posto delle parole, rappresentando così i tanti modi di parlare più o meno ipocriti, falsi, opportunistici, aggressivi o servili, della poco nobile società in cui viviamo.
Alla fine della prima parte completata dall’autore nel 1971, anche l’anonimo protagonista sembra essersi adeguato parlando un analogo linguaggio inarticolato e, poiché nell’ultima vignetta non possiamo vederlo, si può immaginare che frequentando i suoi bestiali simili si sia ormai trasformato in animale a sua volta…
Invece quando Crepax riprende e prosegue la storia quattro anni dopo ci accorgiamo che per il momento è ancora umano e stava solo tentando di uniformarsi al pensiero evidentemente rozzo e bestiale del potente di turno, adottando il suo stesso linguaggio per entrare nelle sue grazie. Poi però ha un moto d’orgoglio, si rifiuta di adeguarsi all’andazzo generale e ancora per un po’ riesce a mantenere la sua umanità.
Ma vivendo altre vicissitudini tra bestie d’ogni tipo, poliziotti caimani, mandrilli fascisti, potentissimi elefanti, bovini sottomessi e scimmioni togati, alla fine cederà anche lui e al termine del racconto si risveglierà da una notte di sonno inevitabilmente trasformato, sotto forma di una belva che emette ruggiti invece delle parole.
In entrambe le due parti della storia si può notare che gli unici altri soggetti che l’autore rappresenta come esseri umani, e non come animali, sono i giovani di sinistra che protestano contro il sistema delle bestie…

L’uso di lingue immaginarie, create realmente o appena accennate, si renderebbe poi davvero indispensabile quando i personaggi non solo viaggiano in lungo e in largo per terre e isole remote, ma arrivano a entrare in contatto anche con esseri di altri pianeti, di lontani mondi e dimensioni del tutto differenti rispetto ai nostri.
Nei fumetti, l’apparentemente futile ma complicata scienza che si può definire glottologia aliena è diventata una specializzazione soprattutto dello sceneggiatore Alan Moore, ma non solo. 



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